martedì 10 maggio 2016

Le griglie orientate


Intervista al Partner di Progetto


Intervista a Sergio Zecca, Direttore Artistico dei Laboratori del Teatro7 di Roma, insieme a Michele La Ginestra. Dopo qualche breve chiacchierata via mail, il sig. Zecca ha preso visione del blog e ci siamo dati appuntamento telefonico per un'intervista. Ecco com'è andata: 

CF: “Per cominciare, cosa ne pensa della zona in cui è situato il progetto?”
SZ: “Non vivo molto quel quartiere e sinceramente non conosco bene il fermento possibile dietro ad un progetto di questo tipo. Ma mi sembra un quartiere popolato, il che è l’ideale per iniziative di questo genere, che a mio avviso dovrebbero esserci in ogni quartiere, perché sono belle e sono utili. Dobbiamo sperare che il quartiere risponda positivamente.”

CF: “I bambini che si approcciano al mondo teatrale sono aumentati o diminuiti rispetto al passato?
SZ: “Questa è la domanda delle 100 pistole! (ride) E’ vero, abbiamo un nutrito gruppo di bambini dai 4 anni in su che forma un bellissimo laboratorio. Forse risulterò banale, ma purtroppo il progresso tecnologico da una parte ci ha dato molta più libertà di espressione, dall'altra ci ha tolto la voglia della sperimentazione sul campo, il piacere di libro cartaceo rispetto alla velocità del tutto a portata di click. C’è meno voglia di approfondire sicuramente e un po’ più di superficialità rispetto al passato; meno interesse per la qualità e più per la quantità. Ma non voglio fare di tutta l’erba un fascio, ovviamente ci sono persone che non rientrano in questo discorso. Però non dobbiamo assolutamente smettere di avere fiducia nei bambini o nei giovani in generale, soprattutto non dobbiamo smettere di avere fiducia nell'arte.”

CF: “Un laboratorio teatrale per bambini quali requisiti necessari dovrebbe avere?”
SZ: “Non mi occupo personalmente dei laboratori per bambini, dovresti parlare con la mia collega Gabriella Graziani. Ma ti posso dire che in una fase delicata come l’infanzia, dove i bambini sono come spugne e imparano molto velocemente, grande differenza la fanno gli insegnanti e il loro approccio con l’arte. Bisogna fare in modo che siano ben seguiti e che posso esprimersi al meglio.”

CF: “Ho letto che il Teatro7 supporta molti progetti solidali e varie associazioni. Quant'è importante per voi questo aspetto?”
SZ: “E’ sicuramente un aspetto molto importante. Abbiamo un calendario di serate dedicate esclusivamente ad Onlus e altre associazioni. In una serata viene fatta una raccolta fondi, devolvendo in beneficenza circa la metà del prezzo del biglietto acquistato. In sintesi si mette a disposizione il nostro “utile”, visto che il restante serve a coprire spese come il teatro, le luci, ecc. Diciamo che oltre all'aspetto comico, per noi importantissimo, ci piace pensare di poter regalare un sorriso a chi è meno fortunato di noi grazie a queste bellissime iniziative.”

CF: “Lei è a conoscenza della teatro-terapia?”
SZ: “E’ sicuramente un grande aiuto. Non ho l’esperienza come insegnante in questo ambito, ma conosco molti colleghi e molti centri in cui viene praticata, e posso dire in tutta onestà che sono di un’utilità pazzesca. Mi piace pensare che esistano alternative alle classiche medicine e alle terapie, e la teatro-terapia è una di queste. Permette, a chi non ne ha la possibilità, di trovare un modo per esprimersi e per aprirsi con gli altri. La comunicazione è fondamentale, e sta diventando sempre più difficile purtroppo, sempre per tornare quel discorso sul progresso tecnologico. Ma secondo me il teatro è terapia sempre, pensi che alcune persone si iscrivono ai nostri laboratori solo per incontrare persone nuove e comunicare con qualcuno, e l’insegnante assume quasi una veste di terapista, cercando di affrontare determinati problemi e drammi personali degli attori.

CF: “Un teatro come il Teatro7 sarebbe favorevole a supportare un progetto riguardante dei laboratori per bambini con il disturbo dello spettro autistico?”
SZ: “Non saprei, dovrebbe parlarne con il direttore Michele La Ginestra è lui che si occupa di questi aspetti. Però senza dubbio si tratta di un progetto molto importante e molto interessante, a sostegno di persone che hanno veramente bisogno, certamente i bambini ma anche le stesse famiglie hanno un grande bisogno. I progetti che riguardano l’arte a mio avviso andrebbero sempre supportati, a maggior ragione se aiutano qualcuno che ne ha bisogno.”

giovedì 5 maggio 2016

Partnership al progetto

Qui sono elencati una serie di partner che si relazionano al mio progetto, che ho già contattato ma con cui non ho ancora avuto modo di avere una vera e propria intervista, anche se sono certa risponderanno al più presto.
Il villaggio di Zio Pino: Il centro ricreativo educativo per bambini
Si tratta di un centro a Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, che ha portato avanti il progetto "Anche noi in scena", un laboratorio teatrale per bambini autistici, grazie al sostegno della comunità attraverso un progetto di crowdfunding.
La responsabile è Alessandra Rosa Rosa.

Teatro 99Posti
Il Teatro 99Posti nasce nel 2002 grazie all'impegno del Co.C.I.S. (Coordinamento delle Compagnie Irpine dello Spettacolo) a Mercogliano, in provincia di Avellino, che ha ripulito e attrezzato un ex centro sociale, in stato di abbandono e degrado, restituendolo ai cittadini e alla cultura. Il teatro porta avanti numerosi, tra cui uno per bambini affetti da autismo.
Il responsabile è Paolo Capozzo.

Teatro7
Teatro7 non è semplicemente un teatro, ma un vero e proprio centro culturale nel quale prendono vita e forma molteplici iniziative artistiche e sociali. Nasce quattordici anni fa con l’intento di riuscire, attraverso il mezzo teatrale, ad educare i ragazzi a crescere interiormente e culturalmente, nell’ottica di un confronto tra le diverse esperienze e discipline, privilegiando gli spettacoli che avvicinino i giovani al teatro. Il teatro inoltre sostiene numerose associazioni attraverso i fondi raccolti dagli spettacoli, come la Croce Rossa Italiana, Io Domani (oncologia pediatrica Africa), l'Associazione Bambini di Nassiriya Onlus e così via.
Il direttore artistico è Michele La Ginestra.
Sito: http://www.teatro7.it

Associazione Italiana Teatroterapia
E’ un'associazione di professionisti che si rivolgono a diversi ambiti sociali come scuole, aziende, case di riposo e centri di aggregazione, inoltre si prendono cura e sostengono persone con disagio psichico e fisico, utilizzando laboratori di teatro a mediazione corporea e di spontaneità, per educare alla percezione, migliorare il rapporto con se stessi, facendo emergere il proprio potenziale umano.
Il presidente è Roberto Motta.
Sito: http://www.fedteatroterapia.it                      

giovedì 7 aprile 2016

Frammenti



L’opera da me presa in esame è l’Università di Legge di Loyola, a Los Angeles, di Frank O. Gehry.

Gehry nasce a Toronto nel 1929, e si trasferisce a Los Angeles nel dopoguerra, e verso la fine degli anni ’70 inizia un lungo percorso, che lo porterà ad una serie di profonde riflessioni sull'architettura contemporanea. Ci troviamo in un contesto storico molto movimentato, sia per ragioni politiche sia per ragioni proprie dell’architettura, per questo motivo si tratta di una fase di sperimentazioni e ricerche per molti. Gli architetti prendono consapevolezza in questi anni dell’importanza del tema ambientale, di come la città e il territorio non possano estendersi, ma soprattutto consumarsi, all'infinito poiché le risorse a nostra disposizione sono limitate. Proprio a partire da considerazioni come queste, Gehry focalizza il suo lavoro sul tema del paesaggio, che egli stesso definisce come cheapscape.

Il cheapscape per Gehry è un paesaggio “materico”, a cui infatti accoppia il binomio “architettura-costruzione” intesa non solo in termini logici, ma anche come montaggio di pezzi indipendenti tra loro, sfruttando anche materiali di riciclo. In questa fase del suo percorso Gehry sperimenta per separazioni e fenditure, come uno scultore scava nella materia, egli scava nell'architettura.


Tutto ciò si manifesta nella Loyola Marymount University’s Law School (1978-91), di cui i primi schizzi risalgono al 1978, ma le prime edificazioni sono successive al 1983. Gehry viene chiamato a redigere il piano di sviluppo della scuola, e il suo “bang” fu quello di inserire i servizi richiesti in edifici di piccole dimensioni, disponendoli su un’area centrale aperta. Il risultato, come egli lo descrive in un’intervista, è “un raggruppamento di edifici come un’acropoli”, che costituisce una sorta di campus in miniatura, dalle proporzioni e dalle facciate abbastanza ridotte lungo la strada principale, che si armonizzano perfettamente con la città all'esterno.



Qui la distinzione e la diversificazione delle attività sono il motore della soluzione architettonica del progetto, il cui risultato porta in luce un altro importante aspetto, ovvero una nuova concezione dello spazio pubblico: sono gli edifici nel loro insieme architettonico a formare e plasmare lo spazio aperto. Infatti, non sono importanti i singoli edifici ma lo spazio che essi, nel complesso, creano; la strada interna è irregolare, spesso obliqua, che inaspettatamente si interrompe per dare spazio a piazzette e piccoli luoghi di aggregazione, originando moti vitali tra studenti e docenti. 


Queste giaciture richiamano il taglio di un incisore, uno spazio cavo quasi scultoreo, accentuato dall'inserimento di quattro fusti cilindrici sulla piazza, a metà tra la colonna e la scultura urbana. In questo progetto Gehry mette in discussione ogni elemento, a partire dal passato con quei cilindri, fino ad arrivare al concetto di frammentarietà materiale delle funzioni, per generare una nuova tipologia di spazio aperto, una nuova scena urbana.

martedì 29 marzo 2016

Il mio "Imprinting"

“Non sembri italiana.”
“Me lo dicono in molti, comunque sono per metà francese.”
“Ah non mi dire. Ma è vero che i francesi non hanno il bidet a casa?”
“…….”


Dai. Veramente questo è tutto quello che devo sentire? Ce ne sarebbero di cose interessanti da chiedere, come il perché ho scelto di vivere in Italia e non in Francia, in che lingua penso o in che lingua sogno, se è stato difficile imparare due lingue contemporaneamente quand'ero bambina, e molto altro. Ma in realtà cosa si prova?

Avere la doppia cittadinanza è come vivere con dei genitori divorziati: vivi a casa di uno ma senti spesso nostalgia dell’altro, e sei costantemente portato a dimostrare che vuoi bene a tutti a due, senza preferenze, anche se in fondo una preferenza ce l’hai.
Per me l’Italia è questo e molto di più. Ci vivo, la vivo ed è la mia casa, ma pensando ad un’idea di “imprinting” come quella di un’impronta nella memoria, non posso che ricondurla alle vacanze in Francia. Nonostante la mia famiglia viva nel dipartimento del Gard (non molto lontano dal famoso acquedotto), quindi nel Sud, uno dei luoghi a cui rimango più legata è sicuramente la casa di famiglia di mio nonno a Septmoncel, piccolissimo comune nella regione della Franca Contea, al confine con la Svizzera, caratterizzata dal Massiccio del Giura, catena montuosa che ricopre maggior parte della regione.In questo luogo ho trascorso gran parte delle mie estati, fino ad una decina di anni fa, quando i miei nonni hanno deciso di vendere la proprietà. 




La casa e quel paesaggio quasi incontaminato, hanno un duplice significato per me, da un lato quello di un grande nido familiare, dove tutti insieme ogni anno ci ritrovavamo, e dall'altro il mio primo contatto con la natura, molto più vasta e complessa rispetto a quella che potevo incontrare tutti i giorni.
La casa era isolata, situata al di sopra di una collina da cui si estendeva un’interminabile prateria verde che culminava in un piccolo bosco, ma a sua volta la collina era circondata da altre colline e montagne ben più alte. Sono passati diversi anni, e i miei ricordi sono legati ad un’età infantile in cui si ha ancora poca percezione degli spazi, ma ciò che ricordo meglio è quanto tutto sembrasse così grande rispetto a me,  le montagne di cui difficilmente riuscivo a scorgere la fine, e la casa stessa. Originariamente la casa era in realtà una fattoria, ma poi mio nonno decise di trasformarla in una grande abitazione, creando delle stanze e rinnovando gli impianti elettrici, mantenendo però la semplicità rettangolare della fattoria. La casa era divisa su due piani: il primo piano aveva un grandissimo soggiorno, in cui spesso mangiavamo in più di venti persone, la cucina, due bagni e una stanza dove tenevamo la legna per accendere i diversi camini, mentre al secondo piano c’erano tutte le camere da letto, che se non ricordo male dovevano essere almeno 6. I lavori non erano certo quelli di una mano d’opera esperta, si vedeva, ma tutte quelle piccole imperfezioni la rendevano, ai miei occhi, bellissima.




Nonostante mio nonno avesse rifatto completamente l’impianto elettrico, la casa era quasi del tutto priva di tecnologia: niente televisione, niente videogiochi, solo la radio e qualche vecchio cellulare per le comunicazioni necessarie, e a tutti stava bene così. Era come un tacito rispetto per questa casa così antica o forse era solo una scusa per staccare dalla vita frenetica di tutti i giorni. Le giornate le trascorrevamo principalmente facendo escursioni, in un paesaggio che si componeva delle verdi conifere dei boschi e del bianco splendente delle rocce calcaree, che affioravano continuamente. Mia nonna mi teneva per mano e mi ripeteva i nomi dei fiori che vedevamo camminando, nel (vano) tentativo di farmeli imparare, ma spesso venivo distratta dagli scherzi dei miei cugini o da chissà cosa. La sera tornavamo a casa a mangiare, poi rimanevamo ore a giocare a carte o ai giochi di società. Tranne la sera del 14 di luglio, quella sera ce ne stavamo fuori tutti insieme a guardare i fuochi d’artificio.

La bellezza di un “luogo della memoria” è che si imprime su vari livelli, emotivi principalmente ma anche olfattivi e uditivi per esempio, e nonostante gli anni trascorsi è ancora lì, vivido.

Forse per quello è così impressionante.